Il cambiamento – inteso non come novità o trasformazione superficiale, ma come ritorno all’interezza – non è un’opzione.
Non si tratta di una scelta da compiere, né di un traguardo da desiderare: è una direzione naturale impressa nella struttura stessa del vivente.
Ogni organismo tende alla completezza. Ogni ciclo biologico, ogni pulsazione del sistema nervoso, ogni oscillazione tra tensione e rilascio è un movimento verso l’integrità. Anche quando non ce ne accorgiamo, anche quando restiamo identificati nei ruoli, nelle abitudini o nei pensieri ricorrenti, il corpo continua a lavorare silenziosamente in questa direzione. E quando non può più farlo in silenzio, lo fa attraverso il disagio, il sintomo, la crisi. Perché tornare a casa, al corpo, non è un atto volontario, ma una necessità fisiologica. E come ogni necessità biologica, prima o poi si impone.
Il corpo – che è la nostra parte più antica e fedele – porta avanti cicli continui di emersione dall’inconscio. Ogni volta che qualcosa affiora dallo sfondo sensoriale e si fa figura, si apre una possibilità: quella di espandere la coscienza e reintegrare un pezzo perduto del sé. Ma se non siamo presenti, se restiamo chiusi nelle trame dell’ego e nelle sue difese, quella stessa emersione può rafforzare la separazione. Il cambiamento avviene comunque. La differenza è se accade attraverso l’ascolto o attraverso la rottura.
Cambiare, nel senso profondo del termine, significa completarsi. Non è un miglioramento, non è un progresso, è un ritorno. Ritorno a una condizione interna in cui tutto trova posto: la sensibilità, la forza, la memoria del dolore e il desiderio di vivere.
E questo ritorno non è una strada tra le altre, ma l’unica via. Possiamo decidere di assecondarla e lasciarci condurre dal suo flusso, oppure resisterle e pagare il prezzo della disconnessione, cambiando ugualmente, ma in peggio.
