ARTICOLO in stile Saggistico come sintesi teorica della Trilogia - Il Codice Bipolare.
La verticalizzazione del corpo umano rappresenta uno spartiacque nell’evoluzione della nostra specie. Sollevandosi dalla quadrupedia, l’essere umano ha liberato le mani per agire sul mondo, ha innalzato lo sguardo oltre l’orizzonte immediato e ha cominciato a organizzare il pensiero in funzione di un “sopra” e di un “sotto”. È da questa trasformazione biomeccanica che ha origine una delle più profonde fratture interiori: la tendenza a valorizzare ciò che si eleva, a discapito di ciò che affonda, sostiene o resta in basso.
L’alto ha assunto progressivamente i tratti della nobiltà: pensiero, parola, sguardo, controllo. La testa, posta al vertice della colonna vertebrale, è diventata il centro simbolico dell’identità, mentre il basso – ventre, bacino, genitali, piedi – è stato via via associato all’animalesco, al primitivo, all’osceno. Eppure è proprio il basso, con la sua adesione gravitazionale alla terra, a garantirci sostegno, stabilità, nutrimento. È lì che avviene la digestione, la riproduzione, il radicamento. È da lì che la vita emerge e si rinnova.
Questa polarizzazione non si è fermata a una semplice distribuzione di funzioni anatomiche. Ha investito il pensiero simbolico, l’immaginario religioso, la percezione morale. Nell’ascesa si è visto il perfezionamento, la liberazione dalla materia, l’accesso al divino; nella discesa si è collocata la colpa, la perdizione, l’involuzione. Così sono nati concetti come paradiso e inferno, cielo e abisso, anima e corpo come luoghi di opposizione e non di relazione.
L’intento, qui, non è negare l’esistenza di una dimensione spirituale, ma ricostruirne le fondamenta. Una spiritualità che si separa dal corpo, che elegge solo una parte dell’esperienza umana a dimora del sacro, è destinata a produrre divisione. Al contrario, ogni tensione tra poli – alto e basso, luce e ombra, mente e ventre – può diventare uno spazio di integrazione, se abbandoniamo l’illusione che l’uno debba vincere sull’altro.
Recuperare questo sguardo significa tornare a interrogarci sulla genealogia dei nostri simboli, sulle loro radici evolutive, sulla cultura che ha trasformato l’elevazione in salvezza e la caduta in condanna. Non per rinunciare al senso, ma per renderlo abitabile. Non per desacralizzare, ma per incarnare.
Dalla postura al simbolo: la costruzione dell’alto e del basso
La distinzione tra alto e basso non è solo geografica o corporea. È una costruzione culturale che affonda le sue radici nella trasformazione posturale che ha segnato la storia dell’Homo sapiens. L’essere umano, in quanto bipede, ha smesso di camminare con lo sguardo rivolto al terreno, come fanno la maggior parte dei mammiferi, e ha iniziato a orientare il proprio sguardo in avanti e verso l’alto. Questa mutazione ha coinciso con lo sviluppo delle funzioni superiori: il linguaggio, la manualità fine, la pianificazione, la coscienza riflessiva. Il cervello, posizionato nella parte più alta del corpo, è divenuto progressivamente il centro del comando, e con esso la mente ha cominciato a sovrapporsi all’identità.
Ma l’evoluzione biologica non procede mai sola. La verticalità ha prodotto conseguenze simboliche profonde. Tutto ciò che è “in alto” ha iniziato a essere percepito come più evoluto, più puro, più vicino a una dimensione ideale. L’alto è diventato sinonimo di progresso, controllo, civiltà. L’essere umano ha cominciato a pensarsi come superiore non solo agli altri animali, ma anche a sé stesso – o meglio, a quella parte di sé che continuava a ricordargli la propria origine terrena, istintiva, pulsionale.
Nel tempo, le comunità umane si sono fatte più numerose, più complesse, più interdipendenti. Le strutture sociali si sono rafforzate e con esse la necessità di regole, ruoli, linguaggi comuni. In questo contesto, le funzioni corporee che favorivano il coordinamento e la cooperazione – la comunicazione verbale, la gestualità, la capacità di controllo e di autoregolazione – sono state sempre più premiate, riconosciute, potenziate. Al contrario, i bisogni personali, gli impulsi, le emozioni primarie – quelle che appartengono al corpo basso, all’intimità, al contatto diretto con la vita – sono cominciate a essere viste come elementi disturbanti, interferenze disfunzionali all’ordine collettivo. Con il tempo, il loro contenimento non fu solo raccomandato, ma moralmente richiesto. E ciò che in passato era semplicemente umano, divenne colpa, debolezza, vergogna.
Nel frattempo, il basso fu caricato di segni opposti. Le funzioni corporee legate al ventre, ai genitali, all’ano, ai piedi – tutte collocate nel polo inferiore – furono relegate al rango di necessità imbarazzanti o peccaminose. Il piacere sessuale divenne perversione. La nudità, scandalo. L’odore, da sopprimere. L’umano cominciò a vergognarsi di ciò che lo ancorava alla carne, come se il corpo fosse una zavorra da cui liberarsi per poter aspirare al cielo.
Non è difficile, a questo punto, comprendere come i grandi immaginari religiosi abbiano attinto da questa stessa struttura inconscia. L’inferno è collocato in basso, sotto terra, nei luoghi scuri e caldi del pianeta, così simili all’interno del nostro ventre. Il paradiso è posto in alto, tra le nuvole, nella luce rarefatta dell’aria sottile, lontano dalla densità della materia.
La direzione verso cui puntano i genitali, il modo in cui i piedi ci legano al suolo, la forza invisibile della gravità che ci richiama continuamente verso il basso: tutto ciò ha finito per essere associato alla caduta. E la caduta – da Lucifero ad Adamo – è diventata la metafora per eccellenza della colpa. Di contro, la risalita verso l’alto è diventata figura di redenzione, purificazione, santità.
Ma questo schema, che sembra spirituale, è in realtà profondamente culturale. È il frutto di un processo di astrazione che ha premiato la mente a scapito del corpo, il controllo a scapito del sentire, l’ordine sociale a scapito della vitalità. L’alto, così concepito, è un’ideologia della distanza. È l’esito di una fuga dalla complessità del vivente.
Se la caduta è temuta, non è perché il basso sia pericoloso in sé, ma perché lo è diventato nella nostra rappresentazione. Il corpo è stato separato dal pensiero, il desiderio dalla coscienza, la terra dal cielo. E ciò che era naturale – defecare, partorire, sudare, desiderare – è stato convertito in problema morale.
Il punto non è allora se l’inferno esista o meno. Il punto è cosa rappresenta, e perché ci spaventa tanto. Allo stesso modo, il paradiso – prima ancora di essere una promessa religiosa – è il nome che diamo alla parte di noi che vorremmo mantenere intatta, ideale, al riparo dalla carne e dai suoi “pericoli”.
Dalla matrice alla gerarchia: quando il divino prese un volto
Il passaggio da una spiritualità incarnata a una spiritualità separata non avvenne all’improvviso. Fu un lento processo di stratificazione simbolica e culturale, che accompagnò l’evoluzione delle società umane verso strutture sempre più complesse, numerose e gerarchiche.
In quelle società, l’individuo era chiamato a svolgere un ruolo funzionale al collettivo: produrre, obbedire, costruire, combattere, prosperare. E per farlo, doveva imparare a controllare ciò che era considerato primitivo, personale, instabile. Doveva reprimere i moti interiori, i desideri, le paure, le pulsioni. Il corpo non era più un luogo sacro, ma un oggetto da disciplinare. Gli istinti vennero trattati come rumori di fondo da mettere a tacere per favorire l’ordine.
Anche la spiritualità iniziò a riflettere questo spostamento. Le divinità, un tempo molteplici e fluide, divennero uniche, astratte, verticali. Dall’antica Tiamat babilonese, dea del mare primordiale sconfitta dal dio Marduk per instaurare il nuovo ordine, fino alla tradizione giudaico-cristiana in cui Dio è padre, legislatore, giudice, si assiste a un’evoluzione precisa: il divino assume i tratti del potere maschile.
Non è solo una questione teologica. È una trasformazione profonda del simbolico. Quando Dio diventa un uomo, un padre, un re, ciò che è femminile, terrestre, carnale, viene marginalizzato. La madre originaria viene dimenticata, la terra è dominata, il sangue è reso impuro. La trascendenza prende il posto dell’immanenza. L’ascesa prende il posto dell’immersione. E così, ciò che ci collega alla nostra parte più viscerale — il corpo, la sessualità, l’istinto — viene spostato nel regno dell’inferiore, del peccato, dell’inferno.
In questa nuova cosmologia morale, non c’è più un dialogo tra poli: c’è un vertice e un abisso. L’alto è luce, ragione, purezza. Il basso è buio, emozione, pericolo. Il paradiso è il premio per chi si eleva. L’inferno è la condanna per chi cede. Ma questa non è una legge universale. È una narrazione culturale, figlia della paura. Paura del caos. Paura della carne. Paura del ritorno.
La divinizzazione del maschile, del superiore, del celeste, non ha solo riscritto il volto di Dio. Ha riscritto il modo in cui percepiamo noi stessi. Il nostro corpo è stato diviso in territori morali. La testa ha preso il potere. Il ventre è stato ridotto al silenzio. E ciò che era unione, è diventato conflitto.
Il ritorno alla totalità: non per regredire, ma per reintegrare
Tutto ciò che viene rimosso, ritorna. Non sempre nella forma originale, ma sempre con una forza proporzionale alla repressione che ha subito. Così accade per gli istinti, per i desideri, per la carne. Così accade per la terra, per il basso, per il corpo.
L’essere umano ha cercato per millenni di elevarsi al di sopra della natura, dimenticando che ne è parte. Ha proiettato verso l’alto le proprie aspirazioni, la propria idea di perfezione, la propria immagine di Dio. Ma nel farlo ha lasciato indietro metà di sé. Ha tagliato i ponti con il fondo, e con esso ha perso l’equilibrio.
La spiritualità stessa, quando si fa solo cielo e si separa dalla materia, diventa un’ideologia. Non guarisce, ma esige. Non nutre, ma giudica. E in nome della luce, getta ombra. In nome della purezza, condanna la vita.
Non si tratta allora di tornare indietro. Non si tratta di negare la ragione, il linguaggio, la complessità del pensiero. Si tratta di ricordare che ogni ascesa è sterile se non ha radici. Che ogni vertice ha bisogno di una base. E che ogni esperienza spirituale autentica ha il sapore del corpo, della presenza, dell’interiorità che sente.
Ritrovare la parte bassa di sé, quella che gravita, che pulsa, che desidera, non è regredire. È guarire una frattura. È permettere che ciò che era stato separato possa di nuovo parlarsi. È togliere all’inferno la maschera della colpa e riconoscerlo come luogo energetico, arcaico, creativo. È guardare al paradiso non come fuga dalla carne, ma come spazio in cui corpo e spirito si incontrano.
Solo in questo spazio intermedio, in questo campo di tensione riconciliata, l’essere umano può sentirsi intero. Non più diviso tra dover essere e voler sentire. Non più trascinato da un dualismo inconciliabile. Ma semplicemente presente: capace di ascoltare il basso senza paura, e di elevarsi senza superbia.
Forse allora il vero gesto spirituale non è salire, ma scendere. Non per perdersi, ma per ritrovarsi. Non per sprofondare, ma per toccare la radice. Perché è nella radice che l’albero trova nutrimento. Ed è solo dalla radice che può davvero tendere verso la luce.
Box storico – Dalla Dea alla Legge: l’ascesa del principio maschile
Le più antiche culture agricole del Neolitico (come Çatalhöyük, 7500 a.C.) veneravano divinità femminili collegate alla fertilità, alla terra, al ciclo della vita e della morte. La Dea era madre, generatrice e insieme distruttrice, incarnava la natura nella sua totalità, con i suoi ritmi immanenti. Ma con l’avvento delle società urbane e delle gerarchie stabili, il volto del divino iniziò a cambiare.
Nel pantheon sumero, la dea Inanna era ancora potente, ma già affiancata (e poi superata) da figure maschili come Enlil e soprattutto Marduk, che nella mitologia babilonese (Enuma Elish) uccide la dea primordiale Tiamat – simbolo del caos originario e del principio femminile – per creare l’ordine cosmico. Questo racconto segna un passaggio simbolico: il potere creativo viene sottratto alla matrice femminile per essere attribuito al principio maschile razionale e ordinatore.
Un’evoluzione simile si trova nella religione ebraica, dove il Dio unico (YHWH) è maschile, trascendente e legislatore. La legge divina si sostituisce ai cicli naturali, e la separazione tra puro e impuro, spirito e carne, alto e basso, si fa norma morale. Il corpo, soprattutto quello femminile, viene sempre più regolamentato (si veda il Levitico) e il desiderio è visto come fonte di colpa (si veda il racconto della caduta in Genesi 3, con Eva sedotta dal serpente e la successiva “copertura” della nudità con foglie di fico).
Anche nel cristianesimo, pur includendo l’incarnazione come evento centrale, la materia rimane spesso subordinata allo spirito, e la salvezza è proiettata verso l’alto, verso un paradiso separato, lontano dalla terra.
Questi passaggi non sono solo teologici, ma esprimono un mutamento profondo nella percezione del corpo e del mondo: da organismo relazionale e ciclico a struttura gerarchica e normativa. Il maschile divino prende il sopravvento come garante dell’ordine, e con esso si rafforza la distanza tra ciò che è “in alto” – mente, ragione, controllo – e ciò che è “in basso” – corpo, istinto, desiderio.
Fonti principali:
- Enuma Elish, trad. W. G. Lambert – testo babilonese ca. XII sec. a.C.
- Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea (1989) – archeomitologia del Neolitico.
- Karen Armstrong, Storia di Dio (1993) – evoluzione del monoteismo.
- Tanakh e Levitico (trad. CEI e Bibbia di Gerusalemme)
- Camille Paglia, Sexual Personae (1990) – arte, religione e corpo tra Dioniso e Apollo.
Trilogia: I Simboli della Bipolarità


