L’infanzia: l’età del presente
Chiunque osservi un bambino mentre gioca, si incanta o si emoziona, può notare con facilità che il tempo, per lui, non esiste. Non c’è un “dopo” e non c’è un “prima”: c’è solo ciò che accade ora.
Non esiste bisogno di pianificare, di ricordare, di anticipare. L’attenzione è interamente rivolta al sentire.
Il bambino non ha bisogno di un obiettivo per muoversi. Vive nella fiducia, si affida all’impulso, si abbandona all’esperienza. La mente, in questa fase, non ha ancora preso il comando. È ancora un piccolo strumento al servizio della vita, non il suo controllore.
Quando la vita comincia a chiederci di diventare altro
Con l’ingresso nella scuola e nelle prime dinamiche sociali, qualcosa cambia.
Il tempo entra in scena. La prestazione diventa importante e il giudizio comincia a farsi sentire.
La spontaneità dell’essere viene gradualmente sostituita dalla necessità di adattarsi, rispondere, adeguarsi. Il corpo non è più un luogo da abitare, ma un contenitore da controllare. Le emozioni devono essere gestite. I comportamenti devono essere corretti.
Il sentire comincia a essere ridotto, contenuto, indirizzato e la mente… prende il sopravvento.
La mente come censore dell’esperienza
Crescendo, la mente viene investita di un ruolo sempre più centrale: quello di governare, prevedere, organizzare. All’inizio per necessità, poi per abitudine, infine per paura.
Così, gradualmente, l’esperienza smette di essere un luogo in cui stare, e diventa qualcosa da gestire, dominare, evitare o ottimizzare.
Il presente non basta più. Viviamo nel passato per comprendere, nel futuro per prepararci.
Ma raramente viviamo davvero qui.
Ecco perché, da adulti, pianifichiamo. Non perché ci serva sempre, ma perché non sappiamo più fidarci dell’istante.
Il corpo: da guida a territorio perduto
Questa trasformazione non è solo culturale o psicologica. È profondamente fisiologica.
Durante la crescita, il nostro sistema nervoso si adatta ai segnali ambientali. Se questi ci chiedono controllo, moderazione, prestazione, il corpo impara a trattenere, bloccare, irrigidirsi.
Il sentire spontaneo si affievolisce.
Le emozioni diventano minacciose.
L’ascolto interiore si fa rarefatto.
Il bambino che un tempo si fidava del proprio sentire, ora è un adulto che dubita di sé anche nelle emozioni più semplici. Vive nel pensiero, nei progetti, nei doveri. Ma ha perso l’intimità con la propria esperienza.
Il ritorno al presente
La vera differenza tra un bambino e un adulto non sta nelle responsabilità, ma nella capacità di fidarsi del proprio sentire.
Finché quella fiducia non viene recuperata, continueremo a vivere in una distanza interiore che nessuna pianificazione potrà colmare.
La serenità che cerchiamo affannosamente nel controllo, nei progetti, negli obiettivi, non è mai andata via.
È ancora là dove l’avevamo lasciata: nel corpo, nel sentire, nell’istante presente.
Box teorico – Corpo e sviluppo del senso di sé
Nei primi anni di vita, il bambino sviluppa la propria identità attraverso il corpo, non attraverso la mente. Il sistema nervoso autonomo, e in particolare le vie enterocettive (cioè quelle che trasportano segnali dagli organi interni al cervello), gioca un ruolo fondamentale nel costruire un senso di sicurezza e presenza.
La corteccia insulare, che elabora le sensazioni viscerali, è profondamente coinvolta nell’esperienza di sé e nel riconoscimento delle emozioni. Quando il bambino può sentire liberamente il proprio corpo, crea un legame solido tra ciò che prova e ciò che è. Questo legame, però, viene spesso indebolito da richieste esterne precoci: performance, obbedienza, giudizio sociale.
Il risultato? Una progressiva mentalizzazione dell’esperienza, dove l’essere viene subordinato al dover essere.
E il corpo, da guida silenziosa, diventa territorio sconosciuto.