Ad un certo punto, lungo la linea del nostro ramo evolutivo, il corpo ha cominciato a cambiare.
Non fu un salto improvviso, ma una lenta, progressiva trasformazione che portò il nostro antenato a sollevarsi in modo sempre più stabile su due soli arti.
La bipedia non fu una conquista naturale.
Fu un adattamento rischioso, ma estremamente vantaggioso.
In un ambiente che cambiava — foreste che si diradavano, savane che si estendevano — stare eretti permetteva di:
- guardare più lontano,
- avvistare i predatori prima,
- trasportare il cibo,
- avere le mani libere per altro.
Ma il prezzo fisiologico fu enorme.
La colonna vertebrale, nata per sostenere il corpo in orizzontale, dovette lentamente adattarsi a sostenere il peso verticale del tronco e della testa.
Le curve cervicale, dorsale e lombare comparvero per ridistribuire il carico.
Il bacino si allargò e ruotò, diventando più stabile ma anche più rigido.
Il piede perse la capacità prensile e divenne una struttura di sostegno, dotata di arco plantare per assorbire l'impatto del cammino prolungato.
Camminare eretti richiese l’invenzione continua dell’equilibrio.
Ogni passo divenne un bilanciamento attivo fra perdita e recupero di stabilità.
La muscolatura profonda — quella che regola il centro del corpo — dovette farsi ancora più raffinata per mantenere la stazione eretta.
Non era più possibile vivere sospesi tra i rami:
il corpo si radicava ora permanentemente nel suolo.
Ma il cambiamento più profondo non fu solo biomeccanico.
Fu sensoriale.
Mentre i mammiferi quadrupedi e arboricoli vivono il proprio spazio attraverso il volume del proprio corpo e il contatto continuo con l’ambiente circostante,
il bipede umano cominciò a percepire lo spazio come qualcosa di più ampio e più distante.
Il campo visivo si allargò.
La verticalità creò una nuova prospettiva: il "fuori" divenne sempre più interessante.
Fu qui che il processo di allontanamento dal corpo ebbe inizio.

