Il narcisismo, nel linguaggio psicologico, è spesso descritto come un tratto della personalità caratterizzato da un senso grandioso del sé, dal bisogno costante di approvazione, dalla tendenza a manipolare l’ambiente per confermare il proprio valore. Nelle sue forme più estreme può assumere i contorni di un vero e proprio disturbo, ma in misura più sottile, il narcisismo appartiene a tutti noi. È il riflesso di una struttura dell’ego che, per sopravvivere, ha imparato a mettere in scena una versione potenziata di sé stessa.
A ben vedere, ogni volta che evitiamo la verità per non apparire deboli, ogni volta che desideriamo essere riconosciuti come speciali, ogni volta che ci sentiamo minacciati da un confronto, il narcisismo si affaccia. Non è cattiveria. È difesa. Una forma di protezione sviluppata per tenere in piedi l’immagine che ci garantisce sicurezza, amore, legittimità.
Il narcisismo nasce da una frattura antica: il bisogno di sentirsi visti per poter esistere. E in una cultura che misura il valore in base alla performance, all’estetica o alla competizione, la ferita narcisistica è amplificata, diventando quasi una norma: “Sii il migliore”, “Fatti notare”, “Non mostrare mai le tue debolezze”.
Ma cosa accade se spostiamo questo stesso sguardo dalla persona alla specie?
Se osserviamo il comportamento dell’umanità nel suo insieme, non sembra forse che anche la nostra specie agisca sotto l’influenza di un narcisismo collettivo?
Un riflesso più grande: la specie come individuo narcisista
L’essere umano si è autorappresentato per secoli come apice dell’evoluzione, come custode della coscienza, come dominatore del pianeta. Ha creato strumenti, linguaggi, religioni, città, tecnologie – e da tutto ciò ha tratto la prova della propria superiorità. Ma nel fare questo ha anche prodotto una narrativa egocentrica: l’idea che tutto il resto – animali, piante, risorse – esista per il suo beneficio.
Questo è il cuore del narcisismo evolutivo: la convinzione profonda, spesso implicita, che l’essere umano non sia solo speciale, ma separato dal resto della vita.
Come un individuo narcisista, anche la specie umana ha costruito il proprio valore sulla base di ciò che la distingue. L’uso del linguaggio, la capacità di dominare l’ambiente, la creazione di simboli… tutti elementi reali, ma che hanno finito per offuscare il senso di appartenenza, come se l’intelligenza dovesse necessariamente escludere l’umiltà, e la coscienza la connessione.
Il risultato? Un isolamento sottile ma profondo. Abbiamo perso il legame con l’istinto, con la terra, con il corpo stesso. E ci siamo raccontati che fosse un progresso. Ma forse era solo una strategia di sopravvivenza dell’ego collettivo. Un modo per gestire la paura dell’insignificanza, del limite, della morte.
E se fossimo solo un mammifero tra gli altri?
Gli altri mammiferi, a differenza nostra, non sembrano affaticarsi per raggiungere la felicità. Non si pongono obiettivi esistenziali, non cercano un senso alla vita. Vivono. E per quanto non sorridano o saltino di gioia, appaiono liberi, integri, emotivamente presenti. Forse è proprio questo che desideriamo, più che i picchi di euforia: una condizione di interezza, un benessere naturale, non spettacolare.
Quello che chiamiamo felicità potrebbe non essere un premio da conquistare, ma un’eco di ciò che eravamo prima di perderci nella mente. Proprio come racconta il mito dell’Eden: l’uscita dal giardino non avviene per una colpa morale, ma per aver ceduto alla tentazione della conoscenza, della distinzione, della divisione. È lì che si rompe l’unità, e nasce il bisogno di ritrovare ciò che si è perduto.
Un invito al ritorno
Riconoscere il narcisismo evolutivo non è un atto di accusa, ma un atto di verità. È vedere con onestà le strategie difensive della nostra specie, così come vediamo quelle del nostro io. Ed è da lì che può partire un nuovo passo: non più verso la conquista, ma verso il contatto. Un ritorno a una forma di esistenza intera, umile, incarnata, che non ha bisogno di specchi per riconoscersi, ma solo di presenza.