La storia dell’evoluzione umana è anche la storia di una separazione. Non una separazione geometrica, né anatomicamente giustificabile, ma una divisione culturale e percettiva tra alto e basso, tra ragione e impulso, tra ciò che si può dire e ciò che si deve tacere.
Questa separazione ha radici profonde. Nasce da un movimento reale, fisiologico, inscritto nel corpo: il passaggio alla posizione eretta, la verticalizzazione, la conquista di una prospettiva superiore. Ma ciò che in principio fu un riassestamento biomeccanico necessario alla bipedia, si è nel tempo convertito in un valore assoluto. L’alto è diventato meglio del basso. Il superiore più nobile dell’inferiore. Il controllato più evoluto dello spontaneo.
Il polo superiore come unica direzione
Con la stazione eretta, l’essere umano ha liberato le mani, sviluppato il linguaggio, coltivato la ragione. In parallelo, ha interiorizzato un orientamento simbolico preciso: evolvere significava salire. Non solo sollevarsi dal suolo, ma emanciparsi dal corpo, dalle sue urgenze, dalle sue zone oscure. La testa è diventata il centro della coscienza, il luogo del controllo, della logica, dell’identità. Il resto del corpo, in particolare le aree più basse – viscere, genitali, bacino – ha cominciato a perdere valore simbolico, a essere percepito come secondario, animalesco, disturbante.
La civilizzazione ha premiato sempre di più le capacità alte dell'individuo ovvero quelle che lo rendevano funzionale al bisogno collettivo. Le istanze più basse, i bisogni, gli impulsi e la ricerca del piacere sono diventati aspetti disturbanti che ne limitavano l'efficienza sociale.
La conseguenza è stata una vera e propria frattura percettiva. L’essere umano ha imparato a pensarsi “da sopra”, a gestirsi “dall’alto”, a definirsi attraverso la mente, trascurando o reprimendo tutto ciò che veniva dal basso: emozioni forti, desideri, impulsi, movimenti spontanei. Il bacino, in particolare, ha subito un destino silenzioso ma radicale: da centro del piacere e del radicamento sensoriale, è stato ridotto a punto d’appoggio, a crocevia meccanico su cui far poggiare la colonna e sorreggere il peso.
La morale come sistema di contenimento
In questo processo, la morale ha svolto un ruolo di primo piano. Non in quanto principio etico assoluto, ma come costruzione culturale adattiva: un codice condiviso che ha cercato di normare i comportamenti sociali secondo l’asse dominante alto/basso, mente/corpo, ordine/disordine.
Tutto ciò che apparteneva al polo inferiore o che lo liberava dal controllo – dalla sessualità alla rabbia, dal piacere all’istinto – è stato gradualmente codificato come pericoloso, sconveniente, indegno. Le espressioni corporee che liberano il bacino, che lo scompongono, che ne attivano la forza primordiale, sono diventate oggetto di giudizio, repressione, colpevolizzazione. Non importa se quelle stesse espressioni fossero naturali o necessarie al benessere: rievocavano uno stato primordiale lasciato in basso, considerato solo un ostacolo nella salita verso l'alto.
Così, la morale ha funzionato come una forza stabilizzante e repressiva: utile forse alla convivenza, ma profondamente deformante rispetto alla fisiologia dell’essere. Perché ha disegnato un essere umano che non deve più sentire tutto, ma solo ciò che non altera il suo elevarsi al di sopra della natura.
La postura dell’uomo morale
Anche il corpo ha finito per riflettere questa dinamica. La postura stessa si è irrigidita per mantenere l’illusione di controllo. Il bacino ha perso mobilità, il respiro si è alzato, le spalle si sono contratte. L’essere civile, educato, contenuto è anche un essere contratto, irrigidito, trattenuto. Ogni gesto che rischia di liberare il bacino – un movimento selvaggio, una danza improvvisa, un grido di rabbia o un’esplosione di piacere – viene immediatamente regolato da un sistema nervoso educato a “non esprimersi liberamente”.
In questo contesto, la bipolarità naturale dell’essere umano – la coesistenza dinamica di due poli, alto e basso, mente e corpo, luce e ombra – è stata letta in modo deformato. Anziché essere integrata come ricchezza, è stata tradotta in opposizione: uno dei due poli è diventato buono, accettabile, desiderabile. L’altro, sporco, primitivo, da correggere. La morale ha quindi contribuito a radicare una visione patologica della polarità: non più complementarietà, ma conflitto. Non più alternanza, ma repressione.
Deformazione e perversione
Ma ciò che viene represso non scompare. Si deforma. Nel tempo, le espressioni impulsive che il corpo non può più manifestare liberamente – la rabbia, la sessualità, il piacere profondo – non si dissolvono nel nulla, ma si accumulano nel corpo, aspettando uno sfogo. E quando si esprimono, non lo fanno più come energia fluida e funzionale, ma come scosse eclatanti, esplosioni incoerenti, comportamenti deformi.
È anche per questo che nella nostra specie rabbia e sessualità assumono spesso tratti che negli altri mammiferi non si osservano. Dove l’animale agisce con immediatezza, l’umano agisce con ambivalenza. Dove l’animale si ferma dopo lo sfogo, l’umano continua a rimuginare. Dove il piacere animale è un flusso, nell’uomo è spesso colpa, spettacolo, dipendenza.
La repressione rende le energie più forti, ma anche più disfunzionali. E finché la morale continuerà a interpretare la nostra natura bipolare in termini gerarchici e dualistici, continueremo a oscillare tra l’autocontrollo cronico e l’esplosione incontrollata.
Conclusione
Recuperare la verità corporea non significa rinunciare alla coscienza, ma riconoscere che essa nasce anche dal basso. Che non esiste vera evoluzione senza integrazione. Che ogni morale che separa anziché includere, che giudica anziché ascoltare, non è un’etica ma un riflesso della paura.
L’essere umano non è solo un animale che ha imparato a stare in piedi. È un essere attraversato da poli, tensioni, desideri e contraddizioni. È tempo di rimettere il bacino al centro, non solo come struttura, ma come simbolo: del sentire, del piacere, del radicamento, della verità che nasce dal corpo.
Nota teorica
La nascita dell’inconscio – almeno nella sua forma moderna – è strettamente legata allo sviluppo della morale e delle funzioni di controllo culturale. Quando un impulso non può essere espresso apertamente, viene rimosso dal piano della coscienza, ma continua a vivere sotto forma di tensione interna, desiderio inespresso, sintomo o sogno.
L’inconscio, quindi, non è semplicemente una zona oscura della mente, ma il risultato di un processo adattivo: ciò che il corpo e la psiche non possono sostenere socialmente, viene spinto fuori dalla coscienza. In questo senso, l’inconscio nasce come deposito del non detto, come rifugio delle energie corporee escluse dal discorso morale.