La società contemporanea assomiglia sempre più a un enorme centro commerciale, in cui ogni possibilità viene presentata come un prodotto da acquistare e ogni prodotto, a sua volta, si declina in fasce, marchi, stili, promesse e naturalmente costi. Esiste una versione accessibile quasi per tutti, una per chi può permettersi qualcosa in più, e poi una per chi punta al top. Così, se oggi quasi chiunque può permettersi un computer, non tutti avranno un MacBook Pro; se tutti possono comprare delle scarpe, solo alcuni porteranno un determinato brand, e lo stesso vale per automobili, vacanze, case, cliniche private o scuole per l’infanzia e a proposito di diritto un buon avvocato difensore.
Questa dinamica è diventata ormai così diffusa da sembrare naturale. Non c’è più bisogno di spiegarla, di giustificarla, né tantomeno di metterla in discussione: è parte integrante del nostro modello economico globale, tanto da rendere quasi impensabile l’ipotesi di alternative realmente praticabili.
Ma se è vero che cambiarla radicalmente sembra irrealistico, è altrettanto vero che osservarla con lucidità può offrire spunti essenziali per comprendere meglio ciò che accade nel nostro mondo interiore, soprattutto quando queste logiche esterne vengono interiorizzate senza coscienza, diventando la base per misurare il proprio valore e, ancor più gravemente, il proprio diritto a esistere.
Quando l’esistenza si misura sul piano sociale
Per quanto possa sembrare assurdo, molti esseri umani finiscono col percepire sé stessi come più o meno degni di esistere in base al loro status economico e sociale. Anche se, razionalmente, possiamo riconoscere l’esistenza come un diritto inviolabile, nella pratica quotidiana essa viene spesso sentita come qualcosa da meritare, da conquistare, da giustificare.
In una società in cui il successo personale è sempre più legato alla visibilità e alla capacità di consumo, chi non può accedere a certi beni o stili di vita rischia di percepirsi come “meno”, come non pienamente incluso, come non autorizzato a stare nel mondo con la stessa dignità degli altri.
Questa narrazione sociale, centrata sull’avere anziché sull’essere, plasma profondamente le nuove generazioni, orientandole verso obiettivi performativi e tralasciando lo sviluppo di qualità umane fondamentali come l’empatia, il rispetto della natura, la capacità di collaborazione o la cura del sentire.
Il successo, così come lo abbiamo codificato, non è mai misurato in termini di autenticità o consapevolezza, ma quasi esclusivamente in base ai risultati ottenuti e riconosciuti pubblicamente. E il premio finale, in questo gioco, è rappresentato dallo status: un’immagine sociale fatta di accessi esclusivi, riconoscimenti simbolici e beni di lusso.
I due volti della frustrazione
Questa dinamica, quando viene interiorizzata, produce una doppia forma di disagio. Da un lato c’è la frustrazione di chi non riesce a raggiungere la fascia successiva, che si tratti di un’auto, di una casa o di un certo stile di vita.
Dall’altro, c’è la frustrazione più sottile – ma non meno dolorosa – di chi, pur avendo ottenuto tutto ciò che il sistema prometteva, continua a sentirsi vuoto, incompleto, irrequieto. In entrambi i casi, il problema nasce dalla stessa illusione: che il benessere coincida con la possibilità di accedere a beni e servizi di fascia alta, e che l’esistenza acquisti significato solo attraverso quei traguardi.
Ha costruito un sistema che lo premia per quello che possiede e lo punisce – silenziosamente ma costantemente – per ciò che non può esibire. Ma, ancora di più, ha perso il contatto con la propria dignità originaria, quella che appartiene a ogni creatura vivente per il solo fatto di esistere.
Ha costruito un sistema che lo premia per quello che possiede e lo punisce – silenziosamente ma costantemente – per ciò che non può esibire.
Ma, ancora di più, ha perso il contatto con la propria dignità originaria, quella che appartiene a ogni creatura vivente per il solo fatto di esistere.
Esistere senza dover dimostrare
Se osserviamo le altre specie animali, ci rendiamo conto di quanto questo meccanismo sia profondamente umano. Gli altri mammiferi non sentono il bisogno di “guadagnarsi” la propria esistenza: ogni individuo ha pieno accesso al proprio valore, alla propria vita, alla propria appartenenza alla natura, senza che ciò venga messo in discussione da un confronto continuo o da una gara sociale. Solo l’essere umano ha trasformato l’identità in una costruzione pubblica, in un’immagine da curare e aggiornare costantemente, come un profilo da mostrare al mondo.
Questo narcisismo sottile, oramai endemico, ci allontana da noi stessi e ci rende sordi a quella voce interiore che sa cosa conta davvero. Il nostro valore non può essere misurato dal livello di comfort, dalle apparenze o dalla possibilità di scelta in un supermercato globale. Eppure, a volte, ci sentiamo più vivi solo quando abbiamo l’ultima versione di qualcosa, o quando possiamo esibire uno status che ci faccia sentire “arrivati”. Nota 1Ed è proprio qui che si nasconde il paradosso finale: una supercar non ha davvero quel prezzo per ciò che fa, ma per ciò che rappresenta. Il suo valore economico non rispecchia le sue caratteristiche funzionali, ma il prestigio sociale che promette di veicolare. È l’identità – non la tecnologia – che stiamo comprando. E nel farlo, spesso, rischiamo di perdere l’unica cosa che nessuno può venderci: la nostra autenticità.
E tu?
Puoi dire di sentirti in diritto d'esistere al pari di chiunque altro?
Nota 1. Narcisismo evolutivo.
Nel corso dell’evoluzione, l’essere umano ha progressivamente sostituito il proprio senso di valore interno con il riconoscimento sociale. Questo fenomeno può essere letto come una forma di narcisismo evolutivo: l’illusione che l’elevazione culturale e tecnologica equivalga a un’evoluzione interiore. La conseguenza? L’identità si costruisce a partire da ciò che appare, non da ciò che si sente. E quando il valore è affidato all’immagine, il diritto d’esistere diventa una conquista, non un’evidenza.

Nota 2. Paura paradossa ed esterocezione.
In un contesto in cui la sopravvivenza fisiologica è raramente minacciata, la mente umana continua a operare in modalità difensiva. La paura paradossa è quella che si attiva non contro un pericolo reale, ma contro la possibilità di perdere il proprio status sociale o l’immagine di sé. Per fronteggiare questa minaccia, il sistema nervoso si iperattiva sul piano estero-cettivo: è costantemente proiettato fuori, attento a come veniamo percepiti, a cosa pensano gli altri, a come posizionarci nel gruppo. Questo sbilanciamento all’esterno lascia sempre più spazio vuoto dentro, generando la sensazione che per esistere davvero sia necessario essere visti, riconosciuti, apprezzati… e mai semplicemente sentiti.
