Gli altri mammiferi non lo fanno
Photo by Birger Strahl / Unsplash

Gli altri mammiferi non lo fanno

L’essere umano è l’unico mammifero capace di ferire con l’intento di far soffrire. Non per sopravvivenza, ma per dolore non riconosciuto. Una riflessione sulla sofferenza che, se non accolta, viene proiettata fuori come aggressività.


Condividi questo post

Siamo l’unico mammifero che ferisce per far male
Nessun altro animale si comporta così. Nessun altro mammifero infligge sofferenza a un simile con l’intento consapevole di farlo stare male.
Nessun altro essere vivente agisce per vendetta, invidia, rancore, umiliazione o disprezzo.

Gli animali lottano, certo. Difendono il territorio, competono per l’accoppiamento, proteggono la prole, ma tutto ciò che fanno risponde a un principio naturale di sopravvivenza; terminato il confronto, il conflitto si esaurisce. Non c’è accanimento, non c’è godimento nella sofferenza dell’altro.

L’essere umano, invece, ha elaborato un modo tutto suo di ferire: non per necessità, ma per proiezione, ferisce per ciò che sente dentro, non per ciò che accade fuori.
Ferisce perché soffre.

Dietro molte delle azioni violente, delle parole offensive, dei silenzi crudeli, si nasconde un dolore non ascoltato, un conflitto non risolto, una ferita che continua a sanguinare da dentro e cerca un colpevole fuori.
Così, il dolore si fa gesto.
Il malessere si fa aggressione.
La disconnessione interiore si traduce in punizione esterna.

Non è l’istinto a guidarci in questi momenti, è l’ego ferito, quella parte che si è sentita esclusa, rifiutata, umiliata. Quella che brama riconoscimento e si aggrappa a un senso di identità costruito sul confronto e sulla separazione.

Quando qualcuno tocca quella ferita – anche solo involontariamente – l’essere umano non reagisce come un animale, ma come un’anima scissa: attacca, controlla, vendica.

La sofferenza che non sappiamo sentire diventa la sofferenza che facciamo sentire agli altri e questa è una catena antica, che si ripete ogni volta che il dolore incontra la mente prima di trovare spazio nel corpo.

Ma se imparassimo a riconoscerlo?
Se imparassimo ad abitare quel dolore, a lasciarlo parlare attraverso i tremori, le lacrime, il silenzio?
Se scegliessimo di tornare dentro a sentire, prima di reagire?

Forse allora potremmo spezzare la catena, e smettere di essere l’unica specie che usa il proprio dolore per distruggere, anziché per guarire.


Note di approfondimento

  • Comportamenti aggressivi nei mammiferi: nella maggior parte delle specie, l’aggressività è funzionale alla sopravvivenza, e raramente continua dopo che il bisogno (cibo, accoppiamento, difesa) è soddisfatto. Le aggressioni gratuite o intenzionalmente crudeli sono assenti [Fonte: Lorenz K., “L’aggressività”, Adelphi].
  • Proiezione e meccanismi difensivi: secondo la psicoanalisi, l’essere umano tende a proiettare all’esterno contenuti inconsci disturbanti, spesso riconducibili a ferite infantili, traumi o insicurezze. L’altro diventa il bersaglio di un conflitto che ha radici interne [Fonte: Freud, Jung; concetto di Ombra].
  • Ego e ferite narcisistiche: l’ego tende a costruirsi sull’immagine e sul confronto. Quando quest’immagine viene minacciata, reagisce in modo sproporzionato per proteggersi. L’invidia, il risentimento e la vendetta sono spesso risposte a un’identità percepita come fragile [Fonte: Heinz Kohut, teoria del Sé].
  • Il corpo come spazio di integrazione: in una prospettiva enterocettiva, il corpo è lo spazio in cui le emozioni non elaborate possono finalmente essere sentite e integrate, riducendo la necessità di proiezione e reazione. Sentire prima di agire diventa atto terapeutico e disinnescante.

Condividi questo post
Commenti

Sii il primo a sapere

Unisciti alla nostra comunità e ricevi notifiche sulle prossime storie

Iscrizione in corso...
You've been subscribed!
Qualcosa è andato storto