dalla Trilogia - Il Codice Bipolare - Episodio 2
Non una madre celeste, non una dea tra tante.
Ma semplicemente l’inizio, la matrice, la sorgente.
Non tanto un’immagine alternativa, ma una domanda che scardina il pensiero abitudinario.
Un gesto di disobbedienza interiore contro l’ovvio, contro ciò che ci è stato detto senza che potessimo ricordarlo.
Perché la spiritualità, prima di essere codificata in testi e dogmi, era sentita nella natura.
Era un’intimità con le forze della terra, del cielo, dell’acqua, del sangue.
Non c’era un Dio che stava sopra e giudicava: c’erano presenze, ritmi, voci.
E queste presenze non avevano un solo volto.
Erano femminili e maschili, lunari e solari, fertili e distruttive, sempre in dialogo, sempre in relazione.
È solo con l’avvento delle religioni patriarcali che il volto del divino ha iniziato a cambiare forma.
Non più spirito che avvolge, ma padre che sorveglia.
Non più danza tra opposti, ma ordine gerarchico.
Non più presenza immanente, ma legge trascendente.
Dio ha preso un volto.
Un volto maschile.
E con esso sono arrivate la parola scritta, la genealogia, la norma.
La ragione ha cominciato a prevalere sull’emozione, il principio sull’energia, il cielo sulla terra.
Le religioni abramitiche – e forse già quelle delle civiltà precedenti, come i Fenici o i Sumeri[^1] – hanno istituito la figura del patriarca come modello spirituale e sociale.
E se la divinità è maschio, allora il potere è maschio.
E se il potere è maschio, la donna non può che occupare il margine.
A volte sacralizzata come madre, più spesso ridotta a corpo, a contenitore, a minaccia da regolare.
Ma la domanda resta lì, disarmante e feconda:
e se Dio fosse una donna?
Se il divino non fosse un’entità lontana da adorare, ma un’esperienza da incarnare?
Se non fosse sopra, ma dentro?
Se non fosse uno, ma molteplice?
Se fosse, semplicemente, vita che pulsa, e quindi corpo?
Nel tempo, ci siamo allontanati da questa possibilità.
Abbiamo sostituito l’ascolto con la preghiera, il sentire con il credere, il simbolo con il dogma.
Abbiamo creato un Dio a nostra immagine e somiglianza… ma quale immagine?
Quella di un maschio dominante, razionale, trascendente, perfetto.
Un’astrazione che rassicura, ma non ci contiene.
In Biomagia non ci interessa affermare che Dio sia uomo o donna.
Ci interessa interrogarci su cosa perdiamo quando separiamo il divino dalla
carne.
Quando lo eleviamo al punto da non sentirlo più.
Quando lo svincoliamo dalla terra, dai cicli, dal dolore, dal sangue, dal corpo.
Forse il problema non è il nome di Dio, ma la distanza che mettiamo tra noi e ciò che chiamiamo sacro.
Forse, per tornare a sentirlo, dobbiamo riscendere.
Rientrare nel corpo.
Ritrovare quella spiritualità originaria che non aveva bisogno di essere definita, perché era vissuta.
E allora Dio può tornare a essere madre, notte, vento, liquido, desiderio, trasformazione.
Non un signore potente da invocare, ma una forza che attraversa.
Una vibrazione che ci abita quando siamo interi.
Quando non giudichiamo le nostre parti, quando non preferiamo l’alto al basso, la mente al ventre, l’uomo alla donna.
E se Dio fosse una donna, o se semplicemente non fosse più maschio,
potremmo finalmente smettere di imitare un ideale che ci separa da ciò che siamo.
Potremmo tornare a sentirci parte, e non sudditi.
Presenze, non strumenti.
Corpi che ascoltano, e non solo voci che parlano.
Note
[^1]: Alcuni studiosi evidenziano come già nella religione mesopotamica si cominci a vedere una preminenza del principio maschile: Marduk che sostituisce Tiamat, l’ordine che domina sul caos primordiale femminile. Anche nel pantheon fenicio e greco, sebbene ricchissimo, il potere è spesso gestito attraverso figure maschili dominanti.


