Se chiedessimo a cento persone cosa cercano davvero nella vita, molte risponderebbero: la felicità. La felicità sembra essere l’ambiziosa meta di ogni individuo, il punto d’arrivo dietro ogni scelta, sacrificio, obiettivo. Ma… cos’è davvero la felicità?
Spesso la immaginiamo come uno stato ideale, pieno, luminoso, che raggiungeremo quando tutti i problemi saranno risolti, quando avremo successo, stabilità, amore, salute, pace. Una condizione che promette di appagare e sistemare tutto. Ma è proprio così? Esiste davvero un punto finale, una vetta dopo la quale non si scala più nulla? Oppure si tratta di un’illusione, di un miraggio che ci tiene in corsa ma che si sposta ogni volta un po’ più in là?
Per provare a rispondere, può essere utile uno sguardo più ampio. Noi non siamo soli. Siamo parte di una grande famiglia: quella dei mammiferi. E allora nasce spontanea una domanda: gli altri mammiferi si affannano per essere felici?
A guardarli, sembra di no. Sembrano più semplici, più presenti, più regolati dalla natura che dall’ego. Non si tormentano per il passato né costruiscono castelli di aspettative per il futuro. Non hanno bisogno di dimostrare, ottenere, migliorare sé stessi per meritarsi la vita. Vivono. Si nutrono, si proteggono, si muovono, si accoppiano, riposano. E in tutto questo sembrano già… felici.
Non felici nel senso umano del termine, fatti di sorrisi smaglianti e salti di gioia, ma liberi. Emotivamente integri, privi di maschere o doppi fondi. E forse è proprio quella la condizione che bramiamo davvero: non l’euforia, ma la pace. Non l’eccezionalità del momento, ma la naturalezza di uno stato interno che non ha bisogno di essere difeso.
Cosa possiamo imparare da loro? Forse che la felicità non è un traguardo da conquistare, ma una condizione di base. Una specie di equilibrio naturale da cui l’essere umano si è allontanato. Quel che chiamiamo felicità potrebbe non essere qualcosa da ottenere, ma qualcosa da ricordare. Un sentire originario, nativo, a cui non servono meriti né performance, ma solo il permesso di emergere.
Forse è per questo che la felicità è diventata una rincorsa. Perché, come nella storia del giardino dell’Eden, ne siamo usciti. Non per un errore, ma per seguire la traiettoria evolutiva che ci ha resi ciò che siamo: complessi, intelligenti, autocoscienti. Ma anche carichi di paure, giudizi, tensioni e frammentazioni. Tutte strutture mentali e corporee che ci separano dalla nostra natura, cioè da noi stessi.
La felicità, allora, non è da guadagnare. È da ritrovare.
E non fuori, ma dentro. Non nel raggiungere, ma nel rientrare.
Rientrare in sé. Sentire il corpo. Lasciare che la vita riprenda il suo ritmo naturale. Sciogliere le tensioni, abbandonare i giudizi, recuperare la semplicità.
Essere felici non è un premio. È una condizione esistenziale.
E puoi sperimentarla solo quando torni a casa.