Cani allo specchio
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Cani allo specchio

Un cane, davanti allo specchio, abbaia. Non si riconosce. Ma è davvero meno intelligente? O forse semplicemente più connesso a sé?


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Quando il riflesso non basta

Chi ha un cane lo sa: la prima volta che si guarda allo specchio, scatta. Abbaia, si agita, magari cerca persino di proteggere il territorio.

Ci vuole tempo, molta esposizione ripetuta, prima che smetta di reagire. Ma non è detto che si riconosca mai davvero.
Il motivo è semplice: per il cane, ciò che vede non ha nulla a che fare con sé.

La vista è uno strumento per orientarsi nell’ambiente, non per trovare se stesso.
Il cane si riconosce attraverso l’olfatto, la postura, la tensione muscolare, il ritmo interno.

In una parola: si percepisce.

Il cane è nel suo corpo. L’umano ci si specchia.

Il cane sa di esistere perché si sente da dentro. Noi, sempre più spesso, sembriamo aver bisogno di vederci da fuori per ricordarci chi siamo. Così ogni mattina, davanti allo specchio, interroghiamo l’immagine:

– Come sto?
– Come apparirò?
– Cosa penseranno di me?

Non ci chiediamo se ci sentiamo presenti, coerenti, vivi.
Ci chiediamo se sembriamo forti, brillanti, sexy, convincenti.

Come se un cane si mettesse in posa davanti allo specchio col petto gonfio per controllare se oggi farà abbastanza paura al gatto.

Dal sentirsi al sembrare

Il paradosso è evidente: il cane va in crisi quando si vede, l’essere umano quando si sente. Abbiamo fatto dell’immagine la nostra ancora, non solo estetica: anche emotiva, sociale, identitaria.
Aggiorniamo costantemente l’immagine riflessa per verificare che nulla sia cambiato o per correggere quello che non ci convince.
Cerchiamo nell’immagine la conferma di ciò che vogliamo essere: sicuri, apprezzabili, desiderabili, in controllo.

Ma intanto, dentro, non ci sentiamo quasi più.

L’ESterocezione ha sostituito l’ENterocezione

In questa inversione silenziosa, i sensi esterni (vista, udito, linguaggio) hanno preso il posto della percezione interna.
Il corpo non ci dice più come stiamo: lo specchio, i commenti, le foto, gli sguardi lo fanno al posto suo.

Abbiamo messo l’identità nelle mani dell’esteriorità.
Ma non è sempre stato così.

Il corpo, da sempre, parla. Ma per ascoltarlo servono silenzio, contatto, tempo.
E un coraggio che abbiamo perso: il coraggio di sentirsi davvero.

Un cane non si sente importante perché ha la cravatta

Un cane non si sente importante perché indossa una giacca. Si sente forte quando lo è. E gli altri lo sentono, lo vedono, lo percepiscono.

Perché l’energia corporea non mente.
L’uomo invece ha imparato a sostituire il sentire con il simbolo, la presenza con l’apparenza.

Ci vestiamo, ci alleniamo, ci trucchiamo, ci costruiamo – ma raramente ci ascoltiamo.

Specchi e identità: strumento o dipendenza?

Lo specchio è una grande invenzione, ma lo abbiamo trasformato in strumento di controllo identitario.
Ci riflettiamo per verificarci, aggiustarci, rassicurarci.

E più perdiamo la connessione col corpo, più abbiamo bisogno dell’immagine per sapere chi siamo.

E se per un anno non ci vedessimo più allo specchio?
Se non potessimo controllarci ogni giorno?
Forse riscopriremmo che siamo molto più di ciò che appare.
E che quando non puoi più vederti, puoi finalmente tornare a sentirti.

Conclusione

Deridere un cane che abbaia allo specchio può far sorridere.
Ma forse il vero smarrimento è il nostro.
Noi che abbiamo bisogno del riflesso per riconoscerci.
Noi che ci siamo dimenticati che il corpo non si guarda: si abita.


Nota teorica – Esterocezione ed Enterocezione

Il nostro sistema nervoso riceve informazioni sia dall’esterno che dall’interno.

  • L’esterocezione comprende tutti i segnali che arrivano da fuori attraverso vista, udito, tatto, gusto e olfatto. È orientata verso l’ambiente: serve a leggere ciò che ci circonda e a orientarci nel mondo.
  • L’enterocezione, invece, è il sistema che ci permette di percepire ciò che accade dentro di noi: respirazione, battito, fame, nausea, calore, tensione, rilassamento… È un linguaggio silenzioso ma fondamentale, che ci informa sul nostro stato interno e costituisce la base della consapevolezza di sé.

Nel corso della crescita – soprattutto in società fortemente visive e performative – l’esterocezione viene progressivamente privilegiata.

Iniziamo a sapere “come siamo” non più da ciò che sentiamo, ma da ciò che vediamo, e da come pensiamo che gli altri ci vedano.

Questo spostamento indebolisce il legame con la nostra esperienza corporea e ci rende più vulnerabili al giudizio, all’insicurezza e alla perdita di autenticità.

Ritornare all’enterocezione significa rientrare nel corpo come luogo di verità.


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Impara ad ascoltare la tua bussola interiore Siamo stati educati a cercare la verità con la testa. A seguire il filo della logica, a soppesare i pro e i contro, a costruire concetti, a dimostrare ragioni. Ci hanno insegnato che la verità è qualcosa da afferrare, da definire, da possedere. Ma se invece fosse qualcosa da sentire? Ci sono momenti in cui il corpo sa prima. Un incontro. Una scelta. Un paesaggio. Non lo sai spiegare, ma qualcosa si muove dentro: si apre, si allinea, respira. Non c’è


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