L’essere umano non ha perso la sua naturale capacità di sentirsi per un errore, ma per una progressiva trasformazione funzionale avvenuta lungo la sua evoluzione.
Il corpo, che per milioni di anni aveva funzionato come orchestra autonoma e autoregolata, ha cominciato gradualmente a lasciare spazi sempre maggiori alla mente.
Il punto di svolta non è stato soltanto cognitivo. È stato prima di tutto motorio.
Con la conquista della bipedia, le mani si sono liberate dalla locomozione, diventando disponibili a funzioni sempre più complesse: manipolare, costruire, gesticolare, esprimere.
Questa nuova disponibilità di movimento ha richiesto un diverso tipo di controllo, più fine, più volontario, più separato dai programmi motori automatici dell’equilibrio e della locomozione.
La mente, attraverso la parola e la manipolazione, ha iniziato ad attingere direttamente ai gruppi muscolari superficiali — i muscoli volontari.
Così si è aperto un accesso progressivo della mente pensante al governo del corpo.
Da qui nasce la possibilità di sospendere momentaneamente i comandi istintivi e viscerali per eseguire un compito richiesto dal contesto sociale: attendere, trattenere, eseguire, imitare, rispettare un ordine, un ruolo, un codice.
L’evoluzione della mente sociale ha progressivamente trasformato il controllo motorio in controllo emozionale.
Se inizialmente la soppressione degli impulsi serviva per eseguire funzioni collettive (parlare senza urlare, controllare i gesti, contenere le emozioni in pubblico), con il tempo si è affermata una nuova istanza:
la morale.
La morale ha aggiunto un nuovo livello al controllo: non solo cosa fare, ma anche cosa sentire, cosa desiderare, cosa pensare.
Non più la semplice inibizione dell’istinto, ma il giudizio continuo sull’intera esperienza interiore.
Nasce così l’inconscio.
L’inconscio non è un luogo astratto, ma la sede viva della nostra fisiologia mammifera, progressivamente silenziata e rimossa.
Tutti quei contenuti naturali — impulsi, emozioni, percezioni viscerali — che non trovano più spazio nella coscienza morale, vengono spinti in un’area sommersa, non accessibile alla mente vigile.
Ma non scompaiono. Restano attivi, compressi, alterando la fisiologia profonda e alimentando quella costante tensione di fondo che caratterizza il disagio umano moderno.
In questo modo la mente non si è solo sovrapposta al corpo: lo ha esiliato.
Il corpo esiliato: quando vivere diventa sforzo
Il corpo, progressivamente spinto ai margini della coscienza, continua a svolgere le sue funzioni vitali, ma non è più vissuto come luogo primario dell’esperienza.
Diventa un mezzo da utilizzare, un oggetto da migliorare, ottimizzare, correggere, curare o addestrare.
Il centro dell’identità si sposta: non siamo più ciò che sentiamo, ma ciò che pensiamo di dover essere.
Più la mente si espande, più il corpo si irrigidisce.
Le tensioni muscolari croniche — spesso non percepite — diventano la manifestazione tangibile di questa lotta silenziosa.
Il tono muscolare si mantiene elevato non più per una necessità fisiologica, ma per trattenere, controllare, sorvegliare il flusso spontaneo dell’esperienza corporea.
L’organismo si abitua progressivamente a vivere in una costante modalità di allerta contenuta:
- la postura diventa rigida o contratta,
- la respirazione si fa alta e superficiale,
- i distretti viscerali perdono flessibilità,
- i ritmi di sonno e veglia si alterano.
L’essere umano vive, ma senza abitarvisi.
Nel tempo, questo assetto diventa così stabile da non essere più riconosciuto come alterazione.
Diventa la nuova normalità.
Il corpo continua a segnalare il proprio disagio attraverso sintomi fisici, ansie, disturbi funzionali o somatizzazioni, ma la mente li interpreta come problemi da risolvere, non come segnali da ascoltare.
Non sentiamo la fatica, ma “soffriamo di stress”.
Non percepiamo la perdita di sé, ma “cerchiamo la felicità”.
Non avvertiamo il corpo, ma “cerchiamo di migliorare la qualità della vita”.
L’allontanamento dal corpo diventa esilio esistenziale.
Il richiamo silenzioso del corpo
Il corpo non ha mai smesso di cercare l’equilibrio.
Anche se esiliato dalla mente, anche se costretto dentro i margini imposti dal controllo e dalla morale, la fisiologia continua a produrre segnali, richiami, messaggi sottili.
Quello che spesso definiamo come malessere, disturbo o sintomo, non è altro che la voce del corpo che tenta di farsi nuovamente ascoltare.
Non è la malattia in sé a rappresentare il problema, ma la perdita del contatto originario con il proprio spazio interno.
Ogni tensione cronica, ogni difficoltà respiratoria, ogni insonnia, ogni ansia non è soltanto un errore del sistema, ma un invito a fermarsi, a riconnettersi, a tornare ad abitare quello spazio che progressivamente abbiamo abbandonato.
Il corpo non parla con le parole, ma con la sensazione.
Non ci invia messaggi attraverso il linguaggio della mente, ma attraverso il linguaggio dell’esperienza diretta:
- una rigidità muscolare improvvisa,
- un respiro bloccato,
- un senso di vuoto allo stomaco,
- un peso al petto,
- una irrequietezza immotivata.
Sono tutti tentativi di riportare l’attenzione dentro.
Ma la mente, abituata a interpretare, etichettare e correggere, tende a leggere questi segnali come fastidi da risolvere o da sopprimere.
Così, ogni sintomo diventa un "problema", un nuovo compito per la mente pensante, che non fa altro che allontanare ulteriormente l’accesso all’esperienza incarnata.
Eppure, proprio in questi segnali, si cela la via di ritorno.
Rallentare.
Ascoltare senza giudicare.
Smettere, anche solo per un attimo, di interpretare ciò che accade.
Permettere che l’esperienza interna emerga senza essere immediatamente tradotta in pensiero.
Ogni volta che abbandoniamo la necessità di capire, il corpo comincia a mostrarsi.
Ogni volta che sospendiamo il giudizio, la fisiologia riprende a respirare.
Ritornare al corpo non è un atto mentale, ma un gesto di fiducia.
Il corpo come unica via di ritorno
L’essere umano moderno cerca ovunque la soluzione al proprio disagio:
nella conoscenza, nella tecnica, nella psicologia, nel miglioramento personale, nella spiritualità concettuale.
Ma ogni tentativo, se resta confinato nel dominio della mente, finisce per perpetuare la distanza.
Non può esistere interezza fuori dal corpo.
La mente può descrivere, comprendere, persino intuire la propria frammentazione, ma non ha accesso diretto all’esperienza della propria esistenza.
È la fisiologia a costituire lo spazio in cui esistiamo.
Non pensiamo il nostro battito: lo sentiamo.
Non immaginiamo il nostro respiro: lo abitiamo.
L’unica via autentica di ritorno passa per un gesto antichissimo e insieme dimenticato:
sentire senza intervenire.
Permettere al corpo di mostrarsi nella sua realtà più semplice: calore, ritmo, tensione, pulsazione, vibrazione, presenza.
Senza interpretare, senza giudicare, senza cercare di migliorare.
Solo così la mente cede spazio, e la fisiologia riconquista il proprio luogo originario.
Non serve aggiungere nulla al corpo.
Serve solo restituirgli il diritto di esistere.
In questa esperienza di ritorno risiede il cuore della trasformazione.
Non nel controllo degli stati interiori, ma nel loro ascolto.
Non nella lotta contro la paura, ma nella possibilità di non doverla più temere.
Il corpo non è un ostacolo sulla via della realizzazione personale.
Il corpo è la via.
Note tecniche per il Capitolo 2:
- Porges S.W. (2009). The Polyvagal Theory
- Damasio A. (1999). The Feeling of What Happens
- Craig A.D. (2015). How Do You Feel? An Interoceptive Moment with Your Neurobiological Self
- Sapolsky R.M. (2017). Behave: The Biology of Humans at Our Best and Worst
- Levine P.A. (2010). In an Unspoken Voice: How the Body Releases Trauma and Restores Goodness